“Ti seguirei fino al bagno”. Il campione faticò a capire. Non c’era ironia nelle parole di quel tizio secco e biondiccio che si ostinava a tallonarlo in ogni parte del terreno di gioco. Lui ripiegava nella propria metà campo, persino in area di rigore, e l’anonimo gregario non dava cenno di volerlo mollare. Allora il campione usò la lingua dei suoi avi, l’Italiano, per farsi capire dall’avversario: «Vieni anche qui?». La risposta suonò come una condanna.
L’Inter prima della finalissima vinta contro il Real Madrid al “Prater” di Vienna.Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Allenatore: Helenio Herrera.
Il campione è Alfredo Di Stefano (sotto). Argentino naturalizzato spagnolo. Tuttora, per molti, il migliore di sempre. Principale artefice dei cinque successi europei consecutivi del Real Madrid, celebre in Spagna come la saeta rubia.
Il gregario, invece, è Tagnin Carlo (sotto in maglia grigia) da Valle San Bartolomeo, Alessandria. Mediano, nel senso più bello e plebeo del termine, quasi un Oriali ante litteram. Uno troppo normale per avere un soprannome.
I due camminano fianco a fianco sul terreno del Prater, a Vienna. E’ il 27 maggio del 1964: Inter e Real Madrid si affrontano nella finale di Coppa dei Campioni.
«Ti seguirei fino al bagno». Nelle parole di Tagnin c’è una nota implicita di ammirazione. Tagnin vuol dire «non ti mollo mai, perché so quanto tu sia pericoloso». Ma la sua frase suona quasi come una professione di fede, una dichiarazione di dedizione assoluta da discepolo a profeta: «con te andrei ovunque, portami dove vuoi».
Discepolo e profeta o perlomeno allievo e maestro: le due definizioni sembrano attagliarsi a quell’Inter e quel Real, che arrivano allo scontro finale portando in dote palmares internazionali molto differenti. Il Real è di casa nella Coppa dei Campioni, competizione peraltro nata per iniziativa del suo leggendario presidente Santiago Bernabeu. La squadra spagnola si è aggiudicata le prime cinque edizioni del prestigioso trofeo, dal 1956 al 1960, arrivando in finale una sesta volta contro il Benfica di Eusebio. Più che una squadra di calcio, il calcio in una squadra.
L’Inter invece, Campione d’Italia nel 1963 dopo nove anni di digiuno è, in Europa, una vera matricola.
Il Real Madrid che venne sconfitto dall’Inter. Vicente, Isidro, Santamaria, Pachin, Zoco, Muller, Amancio, Felo, Di Stefano, Puskas, Gento. Allenatore: Miguel Munoz.
Eppure non sarebbe corretto parlare di Inter-Real come del tentativo da parte dell’allievo di superare il maestro. Perché l’Inter non è mai andata a lezione dagli spagnoli. L’Inter ha frequentato un’altra scuola, una scuola in cui ha già imparato tutto.
Due fasi del match: Corso (sopra) e Sandrino Mazzola.
È la scuola del catenaccio, del calcio all’italiana, oggi poco meno di una bestemmia, allora un modulo innovativo, quasi rivoluzionario. Soprattutto nella versione organizzata e superatletica che ne dà l’Inter. Lo riconosce anche l’allenatore dei madrileni Muñoz, che dichiara alla vigilia della partita: «La formula di gioco della squadra nerazzurra è tra le più moderne che si pratichino oggi sui terreni europei».
I capitani del Real Madrid e dell’Inter – Francisco Gento e Armando Picchi – prima del fischio d’inizio.
Mentre nelle case degli italiani entrano i primi elettrodomestici e le strade della penisola si iniziano ad affollare di automobili tutte uguali, l’Inter cresce, e diventa forza trainante e fresca di un calcio ancora legato a vecchi valori. L’Inter è la squadra del boom: vincente, moderna, organizzata, che pensa in grande e ha tanta voglia di fare.
La festa finale con la Coppa dei Campioni vestita di nerazzurro.
La leggenda della Grande Inter inizia proprio la sera di quel 27 maggio, con un tre a uno che sa tanto di passaggio di consegne.
È la vittoria, anche, di Carlo Tagnin, che incollandosi a Di Stefano spegne la luce del gioco del Real. “Il più umile dei portamattoni”, così lo definisce Emilio Violanti su “La Gazzetta dello Sport”. Una dignitosa carriera fra Alessandria, Torino, Monza, Lazio, Bari. Una squalifica di due anni e mezzo che sembra condurlo dritto dritto verso il ritiro. Poi la squalifica viene ridotta e si fa avanti l’Inter. La vita, a trent’anni, gli offre la grande occasione, proprio quando sembrava ormai troppo tardi. Tagnin non se la vuole far sfuggire, e lavora sodo. Non ha grande tecnica, il suo rendimento dipende dall’abnegazione e dalla tenuta fisica. Progressivamente il biondo piemontese diventa un ingranaggio indispensabile per la macchina di Helenio Herrera. Fino ad arrivare alla partita al Prater, il suo capolavoro.
Mario Bocchio
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