Quella contro il Lecce è stata una vittoria con il retrogusto amaro di una sconfitta. Una valle di lacrime. E come se ce ne fosse bisogno, ad un certo punto il cielo ha anche borbottato.
Non siamo in una drammatica sceneggiatura, ma su un campo da calcio. Definirlo tale significherebbe sminuirlo, ma agli occhi dei veri appassionati quello non era solo un campetto, o ancor meglio uno stadio.. Il “Moccagatta” era una seconda casa, in alcuni casi anche la prima. Era la fabbrica del nostro calcio.
Sono stati scritti fiumi di parole su quanto possa essere romantico il calcio, ma qui andiamo oltre quel senso di amore, si rasenta l’abnegazione e a tratti la follia. Perché per molti come noi, il calcio è religione, è qualcosa di viscerale: inspiegabile agli occhi di chi lo definisce soltanto un gioco tra circa ventidue uomini che corrono dietro ad un pallone. E le viscere le abbiamo viste metaforicamente uscire fuori a chi cantava nell’ultima partita nello stadio così come in pratica è sempre stato sin dalla sua lontana costruzione. Per l’Orso Grigio c’è ancora quella spada di Damocle che non smette mai di ondeggiare sul cuore dei tifosi, la terza serie. Il presidente Di Masi vorrebbe una principessa, ma lei è ancora una Cenerentola. Abbiamo visto tante persone battersi il pugno sul petto, orgogliosi di essere state il popolo fiero del parterre e del rettilineo. Che non si è mai piegato alla sorte, e ha sempre tifato con passione sincera, quasi fanciullesca. Alternando cieca rabbia a continui nuovi atti d’amore.
A Firenze proseguirà quel cammino iniziato da poco, quando l’umile Pillon ha deciso di sedersi su quella panchina, tornare alle origini e prendere per mano una squadra discreta, ma mai veramente completa. Ha guardato negli occhi i suoi giocatori, loro hanno annuito e ora andranno a ballare sul palcoscenico d’eccezione del “Franchi” di Firenze.
Dall’altro lato c’è quello stadio che non sarà mai più come lo abbiamo conosciuto. Che ha dato tanto al popolo grigio, ma che ormai da oltre quarant’anni le ha fatto mancare il traguardo più importante, quello della serie B.
Da adesso in avanti l’Alessandria non potrà più giocare nel “Moccagatta” classico. Si passerà ad un impianto del tutto rivisto. Ma negli occhi di ogni singolo tifoso, rimarranno leggenda le imprese di quei campioni, come Ferrari, Bertolini e Rivera, che sono partiti proprio da qui per arrivare addirittura ad essere campioni del mondo oppure a vincere il Pallone d’Oro. Domenica contro il Lecce, con quella drammatica e nello stesso tempo esaltante lotteria dei rigori, è stata scritta un’altra pagina di storia del club, che ha chiuso un capitolo. E gli Dei del calcio sono intervenuti ancora una volta, mettendo più di una mano su uno scenario da tragedia shakespeariana: addirittura una tremenda traversa che avrebbe potuto stravolgere definitivamente l’ordine delle cose. Poi la freddezza di Nicco che ha tagliato le gambe ai leccesi, e reciso le corde vocali di tutti noi. Ha chiuso centoventi minuti di cori, speranza e voglia di rendere indimenticabile questa serata. E nel finale le lacrime di gioia di tutti, per l’ennesima opportunità agguantata in extremis in una stagione alquanto cervellotica e complicata.
Foto di Tony Frisina.
Doveva essere la domenica dell’Alessandria risorta, ma qualcuno ha deciso che rimarrà per sempre l’ultima del vecchio e caro “Mocca”, nulla più. Siamo ben presto ritornati sulla terra dopo un ceffone di quelli che ti provocano un rossore da almeno due giorni. Rimane solo l’orgoglio, quello che “non ti fa essere come loro”, come quelli ai quali in fondo la storia non interessa, quello che ci differenzia da tutti perché noi abbiamo una maglia dal colore unico al mondo.
E il magone in gola di non aver festeggiato insieme al nostro stadio il Grande ballo della B. Se tutto questo non dovesse essere opera di qualche drammaturgo britannico, potremmo perdere nuovamente tutte le certezze riposte nel mondo del calcio.
Mario Bocchio
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