La partita più antica del mondo è dopo tutto un affare di quartiere, perché si dice che Montevideo e Buenos Aires siano due barrios della stessa città sull’una e sull’altra sponda del fiume, anche se poi l’estuario del Rio della Plata (perciò, Argentina-Uruguay si chiama il Clasico Rio platense) è largo quanto un mare: difatti, quando si mettono a giocare a calcio è come se fossero separate da un oceano.
Argentini e uruguayani, di solito, vanno d’accordo, al punto che stanno coltivando l’idea di organizzare assieme i Mondiali del 2030. “Sono i nostri fratelli charruas”, dicono a Baires, usando il nome della prima popolazione indigena che si insediò a Nord del Rio della Plata.
Litigano solo per due motivi: il pallone e il tango, in nome del più grande tanguero della storia, Carlos Gardel, del quale non s’ è mai saputo se sia nato al di là o al di qua del fiume (e neanche quando, per la verità: era così povero che non venne mai registrato all’ anagrafe).
È argentino per gli argentini, uruguayano per gli uruguayani. Nel calcio non ci sono queste mescolanze, la separazione è netta, scavata in 114 anni di storia, perché Selecciòn contro Celeste si gioca ininterrottamente dal 16 maggio del 1901. Escluse le sfide tra rappresentative britanniche, è la partita tra Nazionali più vecchia che ci sia e si è già disputata addirittura 183 volte: 85 ha vinto l’ Argentina, 56 l’ Uruguay, ma quello che conta è che abbiano conquistato 2 Mondiali a testa e 15 Coppe America la Celeste e 14 l’Albiceleste.
Nell’Alessandria che vuole ritornare grande, in serie B, la grande disponibilità e l’immenso amore per questi gloriosi colori da parte del presidente Luca Di Masi ha messo a disposizione della squadra proprio due giocatori di primissimo livello, uno uruguaiano e l’altro argentino: Cristian Sosa e Santiago Morero.
La garra charrua, carattere uruguagio. Una delle caratteristiche degli uruguaiani è proprio questa, l’ostinazione. Non mollano mai, nemmeno quando l’impresa sembra impossibile. Ma il fatto è che nella storia dell’Uruguay si trovano una miriade di personaggi cocciuti, caparbi, che non si danno per vinti. Uno è José Gervasio Artigas. Nel 1813, dopo che l’Argentina firma un patto di amnistia, con un manipolo di uomini porta avanti la guerra di indipendenza dello stato sudamericano contro l’impero spagnolo, e infatti viene considerato il vero artefice dell’indipendenza dell’Uruguay. È colpa di quei cromosomi testardi, se sono nati i grandi condottieri, i grandi campioni. Il 16 luglio del 1950, a Rio de Janeiro, la Nazionale di Lopez Fontana affronta il Brasile nella finale di Coppa del Mondo. I brasiliani giocano in casa, credono di aver già vinto. Ma un gol di Schiaffino e un altro di Ghiggia ribaltano il risultato e annullano quello di Friaca. Passerà alla storia come “Maracanazo”, come qualcosa di inatteso, inaspettato. Jules Rimet, il presidente della federazione internazionale, disse: “Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay”. In Uruguay crescono tutti cullati da quel mito. Anche Sosa. E quando incomincia a giocare nel Defensor Sporting, non smettono mai di raccontarglielo, di dirgli che tutto si può fare, si può realizzare, che tutto è possibile.
La versione argentina della garra charrua è l’orgullo gaucho. Lo sa bene Morero, che sui sempre infuocati campi argentini lo ha imparato nel Club Atlético Tigre, ne ha fatto tesoro, e lo ha poi messo in pratica con le maglie del Chievo, del Cesena e del Siena.
Oggi la sfida secolare che si portano dentro è diventata la voglia di lottare per la maglia grigia.
La Selecciòn è più forte, ma l’Uruguay è il Davide del calcio, è l’aguafiestas, il guastafeste (“Siamo la mosca nel latte”, dice Sosa), proprio dal giorno in cui violò il Maracanà vincendo i Mondiali in casa del Brasile.
Di mezzo c’è Messi, c’è l’enorme peso dell’obbligo di vincere che grava sull’ Argentina, c’è una squadra ancora imperfetta costruita in funzione della Pulce.
“L’ Argentina è Messi più altri dieci, come ai tempi di Maradona”, ammicca Morero, sottintendendo che invece gli uruguayani sono sempre come minimo undici, ma sembrano uno solo.
“Messi o non Messi, possiamo fare cose che né lui né altri ci possono impedire” è la filosofia di Sosa. L’ Uruguay ha vinto tutte e sette le Coppa America che ha organizzato e pure l’unico Mondiale che abbia mai ospitato, nel 1930, il primo della storia: in finale batté proprio 4-2 l’ Argentina. Le due squadre non riuscivano a mettersi d’accordo su quale pallone usare, nel primo tempo usarono quello portato degli argentini (al riposo in vantaggio 2-1) e nel secondo quello degli uruguayani, che ribaltarono la frittata: a Buenos Aires hanno sempre pensato che ci fosse stato un qualche trucco, ma forse era solo una mosca che nuotava nel latte.
Mario Bocchio