Quintetto d’attacco grigio del 1946 -’47: Armano, Pietruzzi, Lushta, Coscia e Rosso. L’autore è Cesare Bruno.
Litta Parodi è fatta di laboriosi agricoltori, di imprenditori, di onesti operai, di negozianti e di commercianti, a volte più scaltri degli altri ed intorno ai quali si è creato il mito dei “mandrogni” in tutto il territorio nazionale ed anche al di là dei confini italiani. Tanto che la vulgata popolare dice che quando Cristoforo Colombo toccò la terra del Nuovo Mondo, l’America, ad accoglierlo non c’erano gli spaventati e sorpresi indigeni, ma niente poco di meno che i mandrogni già intenti a fare affari. Qui, soprattutto attorno al club Savoia, nacque una vera e propria scuola calcistica. Il personaggio che salta subito in mente è Mario Pietruzzi, che lo scorso mese di giugno ha compiuto ben 96 anni.
Pietruzzi con Fattori capitano dell’Inter. Siamo nel 1951-’52.
“Cavalluccio”,così era soprannominato, avrebbe potuto approdare ad altri clubs di maggior lignaggio, ma la sua scelta di vita è stata quella di rimanere fedele al vecchio Orso Grigio.
Pietruzzi è cresciuto nel Savoia e poi nelle giovanili del Crema a metà anni Trenta, esordì da professionista con la maglia dell’Alessandria nella stagione 1938-‘39, in serie B. Con i Grigi visse tutta la sua carriera da calciatore, ottenendo la promozione in A al termine del campionato 1945-‘46 e seguendo la squadra anche dopo la prima caduta in C, nel 1949-‘50. Disputò le ultime gare nella stagione del ritorno tra i cadetti (1952-‘53); vanta un totale di 53 presenze e 4 gol in A. Con 283 gare in campionato è il terzo calciatore più presente in maglia grigia dopo Antonio Colombo e Renato Cattaneo.
Alessandria-Juventus 2-0 nel 1946 -’47. Il goal di Pietruzzi.
Da allenatore seguì alla fine degli anni Cinquanta il Derthona, lasciando l’incarico nel 1962 per divergenze con la proprietà. Allenò poi la Valenzana e l’Albese prima di entrare stabilmente nello staff tecnico dell’Alessandria, seguendo soprattutto le giovanili e allenando a più riprese la prima squadra in serie C: nei campionati 1967-‘68 e 1968-‘69, nel 1971-‘72 dopo l’esonero di Mario David e nelle ultime quattro giornate del campionato 1973-‘74, già vinto da Dino Ballacci licenziato per contrasti con la presidenza. Ritiratosi sul finire degli anni Settanta, vive oggi a Cascinagrossa. Di calcio Pietruzzi parla sempre volentieri: è stata la sua vita. Il più bel gol realizzato? Non ci sono dubbi, quello alla Juventus. Passa il pallone all’ala sinistra, Rosso, che prontamente la mette in mezzo.
“Cavalluccio” Pietruzzi oggi nella sua casa di Cascinagrossa.
La colpisce di testa: traversa, la palla affonda nel fango. Ma Pietruzzi è il più lesto: tocca sotto e la sfera va in rete, nonostante l’inutile spaccata di Parola. I Grigi in A nel dopoguerra: indimenticabili quelle stagioni, che li videro prima promossi dalla B, poi capaci di prendersi grandi soddisfazioni. Pietruzzi ricorda anche il 2-0 al Grande Torino, una balbettante prima parte del campionato: poi la sterzata, il passaggio dal “modulo” al “sistema”, quello con il quadrilatero formato dalle due mezze ali e dai due mediani. Che rimonta: l’Alessandria era quasi ultima dopo una dozzina di giornate, ma Pietruzzi e compagni finirono a metà classifica.
Gigi Cassano, il “Cavaliere”, da allievo di Baloncieri a campione d’Italia nel Grande Torino: una via di Litta Parodi dedicata alla sua memoria
Ginetto Armano (a sinistra) e l’ex Luigi Cassano ora con la maglia della Lazio.
Gigi Cassano è la mitica leggenda di Litta Parodi. Per tutto il calcio italiano era “il Cavaliere”. Iniziò a giocare anche lui nel Savoia fin da piccolo e si affermò definitivamente nella squadra Under 17. Nel 1937, sotto l’egida di Baloncieri, passò nelle giovanili dell’U.S. Milanese: iniziò così la folgorante ascesa del “Cavaliere”. Dopo tre anni al Napoli si trasferì a Torino dove vinse il primo scudetto dei cinque conquistati dal Grande Torino nella stagione (1942-‘43). Nel dopoguerra giocò con l’Alessandria, con cui vinse il campionato di serie B 1945-46. Morì durante il periodo di militanza alla Sampdoria, per un attacco di tifo che fece seguito a un’ infezione da cozze avariate ingerite durante la trasferta di Bari (11 gennaio 1948), sua ultima partita. Aveva 27 anni. Autentico figlio della terra mandrogna, di Cassano si ricorda un episodio che la dice lunga: giunto allo stadio “Moccagatta” per la partita domenicale dei Grigi, negli spogliatoi si accorse di aver perso il portafogli. Mancava un’ora all’inizio delle ostilità e lui cosa fece? Tornò indietro a cercarlo e lo trovò. Poi scese regolarmente in campo. L’autentica passione di un cultore della storia di Litta Parodi, Natalino Ferrari, autore tra l’altro del volume “Terra di campioni”, negli anni Novanta ha riportato in vita il Savoia F.b.c., che oggi milita nei campionati dilettantistici regionali. Ma il supersportivo Ferrari sogna per il suo sobborgo una sorta di museo locale del football. Nel 2005, su proposta dell’allora consigliere della Circoscrizione “Fraschetta” Pier Renzo Bocchio, il Comune di Alessandria ha dedicato una via di Litta Parodi proprio al grande campione Gigi Cassano, provvedendo altresì ad apporre una targa che ricorda alle giovani generazioni le sue gesta sportive, pagine di autentico valore che dovranno mai essere dimenticate.
Gino Armano, la prima ala tornante italiana: dalla lite con “Veleno” Lorenzi ai due scudetti con l’Inter
Mario Pietruzzi, Gigi Cassano e Ginetto Armano. La colonia di Litta Parodi nell’Alessandria.
L’altro grande prodotto locale che ha fatto strada nel calcio italiano è stato Gino Armano. Nel 1948 Ginetto, come tutti avevano finito per chiamarlo, fu acquistato dall’Inter, diventando in poco tempo uno dei più grandi giocatori della storia nerazzurra: con il club milanese disputò ben 255 partite in serie A e realizzò 73 reti, formando con Stefano Nyers, Benito Lorenzi e Lennart Skoglund un reparto offensivo spesso micidiale. Ai tempi dei successi interisti, l’ex “fanciot” del Savoia e dell’Alessandria passò alla storia per il suo infaticabile ruolo di spola tra difesa e attacco, la famosa “ala tornante”, nell’ambito del sistema di gioco prudente e di marca difensivistica, “chiavistello” o “catenaccio”, impostato dal tecnico Alfredo Foni. Anche se non ebbe l’opportunità di giocare né la Coppa Italia né le Coppe europee, egli riuscì ad aggiudicarsi due scudetti consecutivi nelle stagioni 1952-‘53 e 1953-‘54. Amatissimo dai suoi tifosi, nell’estate 1956 fu ingaggiato dal Torino, con cui rimase tre stagioni (l’ultima conclusa con la retrocessione in serie B) segnando 25 reti in 89 partite di campionato. Annunciò il suo ritiro dal calcio giocato all’inizio della stagione 1960; entrò poi nello staff dell’Alessandria come direttore tecnico, allenando la prima squadra nella stagione 1965-‘66. Nonostante più di 400 presenze e più di 100 realizzazioni nella massima serie non ebbe mai la soddisfazione di vestire la maglia della Nazionale italiana, poiché chiuso dallo juventino Muccinelli. Fra gli altri “centenari del gol” solo Lorenzo Bettini, Pietro Paolo Virdis e Nicola Amoruso non hanno mai giocato nella Nazionale maggiore, mentre tutti gli altri calciatori italiani con almeno 400 presenze in serie A possono vantare almeno una presenza in azzurro. Con “Veleno” Lorenzi divenne amico fraterno, tanto che il buon Benito è stato il padrino di battesimo di suo figlio Antonio. Ma all’inizio la convivenza dei due fu complicata. Lorenzi considerava Armano semplicemente un provincialotto, proprio perché proveniva da Alessandria, ed allora alla domenica faceva apposta a non calibrare i propri passaggi in maniera tale che Ginetto finiva per arrivare sempre in ritardo sul pallone. Una domenica, dopo l’ennesima figuraccia, per di più consumatasi davanti al pubblico amico di San Siro, la “Scala del calcio”, tra il primo ed il secondo tempo Armano prese a cazzotti Lorenzi. Fu il chiarimento. Da allora divennero una coppia inossidabile.
Mario Bocchio