La classe di Giovanni Ferrari.
La conquista da parte della Juventus del trentaduesimo scudetto di fatto eguaglia un record – sempre detenuto dai bianconeri – al quale contribuirono i campioni della celebre scuola calcistica alessandrina. Allegri & C, infatti, si portano alla pari con gli eroi del “Quinquennio d’oro”: cinque scudetti consecutivi. Impresa che nella storia del calcio italiano è riuscita anche al Grande Torino di Valentino Mazzola.
La Juventus nel campionato 1933-’34.
Dal 1930 al 1935 ci fu tanto grigio intenso e prezioso in quelle formazioni bianconere. L’allenatore Carlo Carcano – uno dei capostipiti del celebre calcio provinciale in riva al Tanaro – suggerì gli ultimi ritocchi alla squadra, portandosi da Alessandria Giovanni Ferrari. Arrivò anche Vecchina. Fu la prima stagione vincente della Juve .
Vinse il titolo a quota 55, davanti a Roma (51) e Bologna (48). Il 1931 fu anche l’anno in cui nacque la “zona Cesarini”:, ovvero l’ arte dei goals allo scadere. La partita che diede il là alla famosa “zona”, si giocò al “Filadelfia”, il 13 dicembre, Italia contro Ungheria: all’ultimo secondo, Cesarini superò Kocsis, fintò un passaggio a Orsi e trafisse il portiere Ujvari. L’ Italia vinse 3-2. Non ci fu nemmeno il tempo di rimettere la palla al centro, i recuperi infatti erano ancora sconosciuti.
Ogni campionato divenne per i bianconeri una fantastica e avvincente cavalcata vittoriosa. Il secondo scudetto consecutivo arrivò con 4 punti di vantaggio sul Bologna, addirittura 14 sulla Roma, terza.
Legioni di tifosi bianconeri nacquero in tutta Italia: la Juve ormai era diventata un fenomeno di costume. In società, il barone Mazzonis era il braccio destro operativo di Agnelli. Ma il successo maturò soltanto grazie ad un eccezionale girone di ritorno, dopo qualche distrazione all’andata. Luigi Bertolini “Testa fasciata” – un altro prodotto di lusso arrivato da Alessandria – e Luisito Monti – guardato all’ inizio con sospetto per qualche chilo di troppo – diedero ancor più solidità alla squadra, che segnò 89 reti, quasi tre a partita.
Bertolini ai tempi dell’ Alessandria.
Il terzo scudetto fu quasi una formalità, anche perché nel frattempo le avversarie si scoraggiarono. Il Bologna fu appagato dalla conquista, al termine della stagione precedente, della Coppa dell’ Europa Centrale, mentre l’Ambrosiana riemerse dall’anonimato, senza tuttavia impensierire seriamente i bianconeri. Eppure il campionato cominciò con una sconfitta proprio ad Alessandria per 2-1, con reti di Riccardi e Cattaneo per i Grigi e di Cesarini per la Juve.
Al terzo turno arrivò la seconda debacle con il Napoli di Sallustro e Vojak. Poi, dalla decima giornata, la Juve si trasformò, fece il vuoto e divenne una vera macchina da gol: ne realizzò 83, subendone 23. Dal Brasile era arrivata la mini ala Sernagiotto, che con Felice Borel diede sovente il cambio a Munerati e Vecchina. L’ incontro chiave, il 18 dicembre ’32 contro l’ Ambrosiana a Torino, fece registrare la presenza straordinaria di 14 mila spettatori e un incasso di 140 mila lire.
I bianconeri nel campionato 1934-’35.
La Signora centò il poker, che non era riuscito mai a nessuna squadra, rivincendo il titolo a quota 53 punti: uno in meno dei due anni precedenti. Una stagione straordinaria, mentre a Torino venne inaugurato lo stadio Benito Mussolini (che poi divenne Comunale), impianto degno delle gesta bianconere. Tra i rinforzi, Baldo Depetrini, che divenne un punto di forza. La Juve domiò anche in azzurro: furono ben nove i suoi giocatori impegnati a Budapest nella gara decisiva per la Coppa Internazionale in vista dei Mondiali. Per il leggendario portiere Combi fu l’ ultimo campionato.
La serie del magico quinquennio si concluse con lo scudetto del 1935, nel primo torneo a sedici squadre. Pochi, alla vigilia della stagione, credevano ancora in una squadra che veniva definita a fine ciclo. In estate l’Italia conquistò il Mondiale con l’ apporto di Combi (chiamato in extremis dopo che il titolare Ceresoli si era infortunato ad un braccio), Monti, Bertolini, Ferrari, Orsi (stabilmente impiegati da Pozzo) più Rosetta e Borel II.
La Juve, dominatrice della stagione 1931-’32, a Villar Perosa, tradizionale “feudo” della dinastia degli Agnelli.
Proprio il geniale Orsi, nella finalissima di Roma con la Cecoslovacchia, pareggiò a sette minuti dalla fine, poi Schiavio nei supplementari realizzò il gol del trionfo. Per il campionato, con un’età media molto elevata (33 anni Monti, Orsi, e Caligaris; 32 Rosetta), la Juve arruolò Alfredo Foni e promosse dal vivaio Guglielmo Gabetto. Il torneo smentì le previsioni pessimistiche: alla diciannovesima giornata i bianconeri agguantarono la Fiorentina, alla ventiduesima erano nuovamente soli al comando e si preparavano per un finale vincente allo sprint sui viola. In panchina, avvicendamento a dicembre: al posto di Carcano, subentrarono il dirigente Benè Gola e Carlo Bigatto. A metà stagione, Orsi lasciò per tornare in Argentina.
Felice Borel, detto “Farfallino” mentre segue una lezione tecnica da parte di Carlo Carcano.
Carcano non era soltanto un tecnico del calcio, ma anche un acuto psicologo che conosceva a fondo i caratteri dei suoi uomini ai quali sapeva chiedere, ottenendolo, il massimo rendimento. E non era soltanto un mago del calcio ma di qualsiasi gioco, sia sportivo che delle carte. Chi lo ha conosciuto a fondo e gli è stato amico ricorda come Carlo era imbattibile in qualsiasi gioco delle carte. Nella Juventus, specie negli ultimi tempi della sua attività, aveva disposto le cose tanto bene che tutto funzionava a dovere con il minimo della sua sorveglianza. Negli allenamenti mattutini si preoccupava principalmente che Cesarini giungesse in orario e che Bertolini seguisse le sue istruzioni in quanto, dato che lo aveva portato lui nella società, desiderava che il suo pupillo fosse sempre in forma ed in condizioni fisiche perfette; di tutti gli altri quasi non si curava, tanto era sicuro che seguivano i suoi ordini ed istruzioni. Aveva saputo far funzionare la macchina juventina con tale perfezione che tutto procedeva con facilità, quasi automaticamente: i giocatori stimavano ed apprezzavano il loro tecnico e questi si fidava di loro: sia pure con qualche riserva mentale. Difficilmente Carcano puniva un suo giocatore. Essendo stato giocatore prima degli altri usava sempre la persuasione, sapendo che era, comunque, il migliore sistema.
Juventus-Alessandria 3-1 nel 1933-’34. Ferrari segna contro la sua Alessandria.
Fu proprio “Gioanin” Ferrari a caldeggiare con Carcano l’acquisto di Bertolini. La cifra di cessione alla Juve fu di 150.000 Lire. Il suo stipendio passò di colpo da 100 Lire a 5.000 Lire mensili. Quando lui lesse il contratto gli parve di diventare matto. Di cifre del genere ne aveva, fino a quel momento, solo sentito parlare. E poi c’erano i “premi” di partita: 500 Lire per ogni confronto vinto, 250 per i pareggi. Nelle fila bianconere assaporò davvero l’ebbrezza della fama. Fu una specie di girotondo quasi fiabesco. Alberghi di lusso, viaggi in vagone letto, schiere di tifosi in ogni parte d’Italia. Erano anni dorati. “Testa fasciata” vinse in bianconero quattro scudetti consecutivi, dal 1931 al 1935.
Ancora un fotogramma della partita Juventus-Alessandria della stagione 1933-’34.
Ferrari – il cosiddetto “Asso della Cannarola” – è il Grigio più grande: due titoli iridati, otto scudetti, cinque nella Juventus, due nell’Inter e uno nel Bologna. Oggi, per quanto riguarda il numero complessivo di scudetti, è superato solo da Gianluigi Buffon con dieci.
Un giovanissimo Ferrari nell’Alessandria.
Modesto, serio, laborioso, Ferrari si trovò a suo agio nel grande club di Edoardo Agnelli, padre di Gianni, ma di fatto diretto dal barone Mazzonis che, fra gli altri, poteva schierare il divo Orsi per un premio di 100 mila Lire, una Fiat 509 e 8 mila Lire mensili di stipendio, e Renato Cesarini, nato a Senigallia però emigrato a Buenos Aires da bambino. Il bizzarro, allegro, mattacchione Cesarini era una magnifica mezz’ala destra capace di tutto e, con l’austero Ferrari, formò una strana, straordinaria coppia in bianconero come nella Nazionale. Renato l’impenitente, ascoltava i consigli del fuoriclasse alessandrino.
Ferrari (a destra) insieme a Humberto Maschio e José Altafini.
Ferrari è stato il continuatore dello stile, della tecnica dell’idea di gioco del formidabile Adolfo Baloncieri. Purtroppo con la partenza di Ferrari dall’Alessandria verso la Juventus, la scuola alessandrina chiuse il suo meraviglioso ciclo. Il gioco perse allora quel tanto che gli era rimasto di ispirazione provinciale e andò sempre più acquistando un netto carattere nazionale, cioè una fusione di tendenze diverse, armonizzate da un concetto tecnico più generale.
Alessandria-Juventus 3-2 ,del 1932-’33.
Non ci è nemmeno difficile tracciare un profilo tecnico. Tante e tante volte abbiamo analizzato la sua tecnica di gioco, l’intelligenza con la quale partecipava agli incontri, sia nelle squadre di club che in Nazionale. Giovanni Ferrari: il calcolo applicato al gioco del calcio.
Juventus-Alessandria 4-1. 1934-’35.
Un giocatore freddo, positivo, il buon senso fatto persona. Gli sportivi lo ricordano come la tipica mezzala del metodo, cioè mezzala di manovra, da tessitura. Era una macchina che lavorava e funzionava a regolari colpi di stantuffo, uno dopo l’altro, continui, implacabili.
Juventus-Alessandria 3-0, 1932-’33. Colpo di testa di Barale.
Giocatore di una tecnica sobria, poco portato ad osare, ma che costruiva la partita un’azione sull’altra, come le pietre di un edificio, le imbeccate pronte per tutti, gli occhi attenti a misurare l’ostacolo ed a valutare una situazione tattica, un uomo metodico che sembrava possedere un misterioso senso del ritmo; giocava con una cadenza sempre uguale, apparentemente un po’ lenta, ma che faceva forse più strada di ogni altra; quello sfornare continuo di palloni scoccati per ogni direzione, quel senno di gioco che dava l’impressione di un saggio fra tanti scavezzacolli.
Altre due immagini di Juventus-Alessandria 3-1 nel 1933-’34. La scelta del campo.
Tutto, insomma, ha contribuito a fare di Ferrari un elemento di grandissima classe. “Gioanin” Ferrari, giudicato a posteriori, è stato proprio il giocatore sorto nell’epoca sua, cresciuto nel suo più conveniente clima di gioco. Possiamo senz’altro affermare (confortati in ciò dall’opinione di illustrissimi competenti – quali Ugo Locatelli, Piero Rava, Baldo Depetrini e Silvio Piola – che egli è stato, nel corso di un decennio, la migliore mezzala sinistra europea. Ed è l’elogio più alto che il critico può scrivere dell’indimenticabile giocatore alessandrino.
Mario Bocchio
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