Il corsivo di Mario Bocchio
Confesso che, personalmente, sono rimasto deluso da come il Mister Angelo Gregucci sia stato scaraventato nel tritacarne. Non perché verso lo stesso io abbia sempre nutrito una certa simpatia, ma perché ritenerlo una sorta di anima nera della mancata promozione in serie B dell’Alessandria è ingeneroso, decisamente ingiusto.
Certamente anche lui ha avuto la sua parte di responsabilità, ma le “colpe” – da quando mondo è mondo – vanno sempre equamente divise.
Da giocatore, il compito del “Gregu” consisteva nell’impedire agli altri di giocare bene. Professione difensore, difensore vecchia scuola: poca grazia e tanta sostanza. Non è mai stato un campione, ma ha sempre saputo raccogliere la stima di tanti. Anche dell’allora cittì della Nazionale Azeglio Vicini, che nell’autunno del 1990 lo convocò per un doppio impegno di qualificazione agli Europei. Gregucci piaceva perché era un giocatore utilissimo. In campo e nello spogliatoio.
Da allenatore, la sua attitudine a fare gruppo è diventata priorità, il primo passo per raggiungere traguardi importanti.
Lo scorso settembre era arrivato ad Alessandria con emozione ed entusiasmo, perché era qui che a sedici anni era stato accolto per imparare il calcio.
Oggi sta per andarsene, profondamente deluso, triste, per essere stato additato quasi con cattiveria, anche insultato, proprio da chi in maniera ipocrita pochi mesi fa lo voleva portare in trionfo per aver fatto ballare una città intera dopo aver confezionato lo storico (e irripetibile) cammino in TimCup.
“Voglio essere chiaro: la Coppa Italia per noi era e continua a essere soprattutto una vetrina. Perché in verità noi proponiamo sempre lo stesso spettacolo. Certo, la vittoria con il Genoa ha modificato almeno in parte le logiche del percorso. Tre mesi fa eravamo una squadra di bassa classifica della Lega Pro e le motivazioni di chi ci affrontava erano in linea con le nostre prestazioni. Col passare delle settimane, siamo cambiati noi e sono cambiate le attese dei nostri avversari, che ora fanno il possibile per soffiarci la ribalta. Dobbiamo rimanere con i piedi per terra e tenere alta la concentrazione sul campionato. Il nostro futuro passa da lì, non dalla Coppa Italia”. Queste erano state le parole di Gregucci.
Ebbene, qui in pratica c’è la chiave di lettura dell’intera stagione dell’Alessandria, di quello che non è stato e avrebbe potuto essere.
Di un’Alessandria che non era stata costruita in questa maniera per volere e indicazione di Gregucci, che l’aveva ereditata da Beppe Scienza. E che forse forse non era nemmeno quella che avrebbe voluto lo stesso Scienza, ma che il direttore sportivo Giuseppe Magalini gli consegnò chiavi in mano, se è vero (come sostengono a Foggia) che i Grigi contattarono addirittura Roberto De Zerbi, per sentirsi dire di no, visto che lui contestualmente al suo ingaggio avrebbe voluto che fossero comperati sei o sette giocatori da lui indicati e la società rifiutò.
Gregucci ha cercato di esaltare le qualità dei ragazzi che aveva a disposizione, dicendo loro che dovevano mettere la dedizione al lavoro e lo spirito di appartenenza davanti a tutto. Gli ha sempre ricordato che il calcio è soprattutto un gioco, un modo per divertirsi e per divertire.
Errori ne ha sicuramente commessi, ma le partite non si vincono mai grazie al modulo, ma all’impegno di tutti a remare nella stessa direzione.
Il suo motto è quello che ha imparato da chi considera un suo maestro, Mircea Lucescu, che anche a Pirlo, Baggio e Ronaldo diceva sempre: “Voglio uomini veri, prima che calciatori”.
Per esperienza, posso dire che le grandi squadre non si costruiscono soltanto comprando calciatori ricchi di talento. Servono giocatori che sappiano assumersi le responsabilità, che vanno affrontate e superate con maturità e intelligenza.
L’Alessandria ha avuto Loviso e Fischnaller (con un contratto quadriennale che è una vera e propria anomalia per la Lega Pro, per non dire un’esagerazione), è poi arrivato Iocolano, ma ha anche avuto l’onesto lavoratore Sabato, i due centrali Morero e Sosa pieni di autentici valori morali.
“Ne sono certo: oggi gli stupidi non possono fare carriera” è un’altra convinzione del “Gregu”.
Ha iniziato ad allenare nel 1999, alla Reggiana. In serie A con Lecce e Atalanta non è andata benissimo.
“Io vorrei guidare una squadra in Champions League, questo è il mio obiettivo. Come si dice, bisogna mirare alle stelle per colpire la luna – mi confessò una volta negli spogliatoi del “Mocca” – È vero, in serie A non è andata benissimo, ma è altrettanto vero che la mia esperienza è durata complessivamente un mese o poco più. In Italia va così, due partite sbagliate e sei fuori. E se poi la stampa spinge contro, è solo questione di tempo, l’esonero è dietro l’angolo. La panchina della Lazio per me non è un’ossessione, ma non posso nascondere che sia la società che porto nel cuore insieme ai Grigi, due piazze nelle quali ho trascorso una parte importante della mia carriera”.
Trent’anni fa fu tra i protagonisti della cosiddetta “banda dei -9”, che si salvò dalla clamorosa retrocessione in serie C. Quella sua Lazio è entrata nella storia e nel cuore dei tifosi biancocelesti.
Ma anche in riva al nostro Tanaro si è sempre reso disponibile a condividere, con grinta e responsabilità, anche tante situazioni difficili per l’Alessandria, tre promozioni sfumate di un soffio e cambi di proprietà non sempre salutari. Ma lui è sempre stato lì, con la testa alta.
È stato il vice di Roberto Mancini alla Fiorentina e al Manchester City. In Inghilterra lei è tornato nella stagione 2014-‘15 per lavorare nello staff del Leyton Orient, club di terza serie protagonista di un reality.
Poi quella chiamata che lo aveva catapultato nel suo passato, sconquassando i sentimenti. Ancora Alessandria.
“Vado dove rotola la palla. Se sento che l’esperienza che mi propongono mi può dare qualcosa, non ho alcun problema a garantire il mio contributo”.
Pochi giorni prima della sfida di Foggia mi aveva confessato che questo calcio – che non è più quello di una volta – non lo affascina, che è troppo pieno di persone sbagliate. Nelle sue parole si percepiva chiaramente una sorta di consapevolezza di essere come accerchiato.
Sapeva benissimo di essere ormai al capolinea.
Alessandria però ha perso una grande occasione, quella di separarsi da questo gentiluomo in altra maniera, con modi signorili e non beceri e irriconoscenti. Angelo Adamo Gregucci non lo meritava e non lo meriterà mai.
C’è un proverbio che dice: i cani abbaiano, ma la carrozza procede.
Ma se non si rivedranno tante cose, se il presidente Luca Di Masi non si convincerà una volta per tutte di scegliere al suo fianco i collaboratori giusti, è pressoché certo che andremo nuovamente incontro ad una delusione cocente. Era stato così anche lo scorso anno. E non venite a dirmi che anche allora la colpa era di Gregucci, che non c’era:
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