Amilcare Ferretti, detto Mirko, classe 1935, figlio d’arte calcistica – suo padre giocò nel Messina negli anni Trenta del Novecento – lo si inquadra d’istinto per una caratteristica che lo ha sempre reso anomalo agli occhi della sua città: è un personaggio passionale e dunque scomodo. Il che, si comprenderà, non sempre gli è stato d’aiuto nei rapporti più in generale, sebbene l’attaccamento mostrato ai suoi concittadini in una pluralità di occasioni non sia stato soltanto declinato sul calcio.
Tuttavia la sua abitudine a non sposare l’ipocrisia, a dire “pane al pane e vino al vino”, sincerità che a volte producono più antipatie che ammirazione, alla fine gli è stata “perdonata” anche dai più conformisti, proprio grazie al calcio. Miracoli dello sport più amato sulla terra, si dirà. Ed è straordinariamente vero, anche per Ferretti. Ma per lui, quella palla che rincorreva da bambino nelle strade delle case popolari di via Piave, a ridosso di Spalto Marengo ad Alessandria, non ha significato soltanto benessere, fama e notorietà.
Il calcio in giro per l’Italia e all’estero da giocatore, da allenatore, da osservatore, si è rivelato la conferma che il baricentro della sua esistenza era ed è Alessandria, da cui non si è mai mosso, nonostante gli strappi che l’amore e odio può produrre verso una città. E la cosa non è passata inosservata. Come la sua affabulazione, che gli è di grande aiuto, che si rivela in una scarica inarrestabile di ricordi, di aneddoti, di personaggi. Le sue sono storie, mai di seconda o terza mano, vissute sempre in prima persona, con un divertissement che si nega alla chiacchiera da bar sport.
Mirko Ferretti, e in passato glielo hanno riconosciuto anche i suoi critici più severi, non ama il chiacchiericcio, meno ancora il pettegolezzo, cibo degli dei invece nel calcio moderno, che fa passare autentici palloni gonfiati per personaggi pur di mantenere vitale il suo circo Barnum.
All’opposto, Mirko non è mai riuscito a digerire il compromesso al ribasso per rimanere sotto la luce dei riflettori in scena. Quando lo ha fatto, c’era di mezzo Alessandria, intesa come società calcistica. Era il 1966, anno tragico per il calcio italiano, stroncato ai Mondiali della Coppa Rimet in Inghilterra da un odontotecnico della Corea del Nord di nome Pad Doo-Ik. Fu un gol che la sera del 19 luglio fece precipitare l’Italia calcistica nel peggiore degli incubi. I coreani erano stati descritti come una squadra di “Ridolini”.
Invece, costrinsero la nazionale azzurra, all’epoca allenata da “topolino” Edmondo Fabbri, a fare le valigie, a ritornare anzitempo (rispetto ai pronostici) a casa, dove fu subissata da una pioggia di pomodori all’arrivo all’aeroporto. Trentasei anni dopo, ai Mondiali del 2002, non ci sarebbe andata meglio con l’altra Corea, quella del Sud: eliminazioni agli ottavi di finali, ma con la “collaborazione” di un arbitro corrotto, l’ecuadoregno dal nome poeticamente romantico, Byron Moreno, scoperto anni dopo a New York con sei chili di droga: un autentico “modello” per gli arbitri di tutto il mondo.
Ma nell’estate del 1966, Mirko Ferretti si ritrovò con un altro tipo di incubi: il declassamento dal Torino, che per quattro stagioni era stato la sua maglia in serie A. Era arrivato al Toro nel 1962 dal “calciomercato di novembre” (l’unica finestra che si apriva per le società a campionato in corso), prelevato dalla Fiorentina.
Un alessandrino con i granata, in cui giocava da mediano insieme all’indimenticabile e trasgressivo Gigi Meroni, all’inglese Jerry Hitchens, alla bandiera Giorgio Ferrini, il capitano, a Giorgio Puia, a “baby face” Rosato. Una squadra che sapeva farsi rispettare sotto la guida del grande Paron Nereo Rocco. Insomma, pezzi di storia del calcio italiano, a stretto contatto di chi aveva cominciato nel Canelli, poi al Como, a Catania, entrando addirittura nel mito radiofonico, quando Ferretti proprio con la città dell’Elefante, fu protagonista di quel “clamoroso al Cibali” urlato da Sandro Ciotti ai microfoni di “Tutto il calcio minuto per minuto”.
Era il 4 giugno del 1961 e il Catania con quel 2 a 0 rifilato all’Inter aveva spento le ambizioni di scudetto dei milanesi di Helenio Herrera e del suo presidente Angelo Moratti.
Fu così nel 1966 Ferretti si ritrovò a metà del guado, incerto se guadare il Tanaro e voltare le spalle alla sua città. “Obtorto collo” scelse l’Alessandria e la serie cadetta. Amava la sua città, ma sapeva anche che nessuno riesce ad essere “nemo propheta” in patria. Era già accaduto ad altri giocatori dei Grigi.
Esigenze di mercato lo convinsero, infine, ad accettare la proposta e a calcare il terreno del “Giuseppe Moccagatta”, mettendo da parte i peggiori presentimenti. Mentiva a sè stesso. E l’avrebbe fatto anni ancora in un’altra occasione e sempre per Alessandria. La stagione 1966-‘67 decollò al comando dell’uruguagio, naturalizzato italiano, Hector Puricelli, detto “Testina d’oro”, grande cannoniere a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, con due scudetti all’attivo nel Bologna e un altro vinto sulla panchina del Milan nel 1955, un giramondo del calcio.
Poteva essere l’uomo giusto per Ferretti, calciatore sul viale del tramonto, con la segreta passione di allenare. Un uomo da cui imparare, apprendere, con cui studiare il proprio futuro. All’opposto, in quei mesi, i fantasmi di Mirko presero interamente corpo. Incomprensioni tecniche e tattiche con Puricelli sulla sua posizione in campo unite ad un organico fragile portarono i Grigi e Ferretti, complice anche un grave infortunio, a diventare quasi un ex calciatore. L’Alessandria divenne così una parentesi per nulla tonda, di cui si vedevano soltanto gli angoli acuti. Fu l’inizio della fine, ma anche la fine di un inizio in cui non aveva creduto. Diversamente da quanto sarebbe accaduto agli inizi degli anni Ottanta, quando si sarebbe trovato disoccupato da allenatore, dopo le stagioni straordinarie da vice di Gigi Radice al Torino.
Fu nel novembre del 1982 che Ferretti ritrovò l’Alessandria, nobile decaduta addirittura in serie C2. Andò a sostituire in corsa l’allenatore Gian Piero Ghio, ex giocatore con buoni trascorsi alla Lazio, Napoli e Inter, giubilato da una piazza arrabbiata, incapace di comprendere che la decadenza era anche collettiva con tanti colpevoli e per nulla nobili… L’ingaggio di Ferretti fruttò ai Grigi il quinto posto, e alla società la consapevolezza che la squadra aveva le carte giuste per il salto di categoria. Dietro l’angolo, però, c’era la sorpresa. Che divenne amara. Gigi Radice, dopo aver firmato per l’Inter, lo rivoleva al suo fianco, in panchina. Ma Mirko aveva dato la sua parola di rinnovo contrattuale al presidente Cerafogli, un uomo con la passione del ballo liscio. Eventi l’uno a ridosso dell’altro, ma l’ultimo si sarebbe rivelato esiziale per la sua carriera: l’arrivo alla presidenza dell’Alessandria di Gian Marco Calleri, fondatore della Mondialpol, lo stesso che pochi anni dopo avrebbe comprato la Lazio e nel 1994 il Torino.
Tra Ferretti e Calleri non scoccò la simpatia, né emerse alcuna forma di empatia. Non c’era nulla, se non un contratto da quattro milioni di lire che Cerafogli aveva fatto qualche mese prima all’allenatore. Un’inezia, in fondo, per chi era diviso da opposte vedute calcistiche e da una visione politica agli antipodi, quest’ultima elemento non secondario in uno sport tendenzialmente conformista, in cui si riflettevano le tensioni che a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta tormentavano il Paese, lacerato dal terrorismo di destra e di sinistra. Ferretti, mai profeta in patria, fu esonerato da Calleri nello spazio di un mattino o giù di lì e fu costretto a riprendere la valigia in mano, a ripercorrere la penisola alla ricerca di un nuovo ingaggio, con la sua famiglia stanziale ad Alessandria. Fino a quando, a metà degli anni Ottanta, imboccò la carriera politica, eletto alle Amministrative nel Consiglio comunale della sua città. E forse, fu quello il momento in cui per la prima volta, alla presidenza della Commissione Pubblica istruzione, Sport e Tempo libero – sindaco il socialista Giuseppe Mirabelli – Mirko Ferretti si sentì se non profeta in patria, almeno la persona giusta al posto giusto per Alessandria.
Michele Ruggiero