Arcigno e solare, quasi un ossimoro. Senza mediazioni. Diretto. Tanto amato ma poi sempre destinato chiudere le sue storie con Alessandria sbattendo la porta. Dino Ballacci era così. Lo è sempre stato. Ribelle per una causa giusta, in montagna, tra i partigiani, con la Banda Osoppo e poi in campo più di 300 volte in rossoblu, a Bologna, a discutere di contratti con il presidente Dall’Ara con la pistola nella cinta dei pantaloni per poi finire la carriera, dopo Lecco, Lucca e Portogruaro, a Civitanova Marche dove avrebbe iniziato quella di allenatore.
Una storia di calcio intensa e vera, come mille altre ma, proprio perchè una di quelle mille e più, da raccontare e conservare e soprattutto da non dimenticare. “La prima volta che mi venne incontro ho avuto l’impressione di avere di fronte John Wayne”, racconta oggi Renzo Melani che con Ballacci lavorò al Prato alla fine degli anni 60, in C. “L’andatura con quelle braccia caracollanti e quella voglia di porgere il petto al nemico per difendere i suoi, comunque. Un personaggio positivo, con le sue idee, un po’zuccone ma un uomo leale, senza secondi fini”. Ballacci arrivò ad Alessandria nell’estate del 1973, dove, particolare interessante, non aveva mai giocato da calciatore pur con oltre 400 gare in carriera.
Era un allenatore affermato che aveva portato in panchina certi tratti del Ballacci giocatore: determinazione, spirito guerriero e senso del gruppo. Il suo nome era legato alle buone cose fatte al Sud, con due esperienze diverse a Catanzaro, con una finale di Coppa Italia persa in extremis all’Olimpico contro la Fiorentina nel ‘66 e, successivamente, nel 1969-‘70 con la costruzione della squadra che avrebbe raggiunto la storica promozione in A con mister Seghedoni. In mezzo, dal ‘67 al ‘69, Catania con la A sfiorata, nella prima stagione.
Coi Grigi scendeva in C dopo onesti campionati ad Arezzo, in serie B e il lancio di del portiere Paolo Conti e di Ciccio Graziani. Il gruppo che costruì insieme alla dirigenza Grigia rappresentava una svolta significativa rispetto all’Alessandria “bella e impossibile” delle annate precedenti, tanto elegante e votata allo spettacolo coi suoi solisti e suoi elementi di classe (Lorenzetti, Di Pucchio, Musa) quanto incapace di cogliere l’unico vero obiettivo-sogno di tutta la città: la serie B.
Di qui la necessità di puntare su un gruppo di gente affermata ma ancora affamata di vittorie, gente nel pieno della maturità, eppure disposta a rimettersi in gioco: Reia, Mazzia e poi ancora Baisi, Volpato e Unere (tutti e tre con lui a Catania), Pozzani (in rosa nel suo Catanzaro) e Barbiero erano alcuni degli uomini su cui veniva costruita la stagione. E nasceva la Pozzani, Maldera Di Brino…. Ballacci ci mise del suo affidando a Volpato il ruolo di regista del centrocampo, in un assetto con Baisi unica punta pronto a far spazio gli inserimenti da dietro, vuoi di Dalle Vedove o Di Brino o Manueli La cessione dell’irrequieto Musa, a ottobre, completava lo scacchiere. Ballacci s’inventava Manueli tornante d’attacco e la formula vincente era trovata. Sul prato di Marengo, tra i bestemmioni di Barbero, i sorrisi di Reja e le piroette di Dolso si costruì un gruppo eterogeneo eppure granitico; Ballacci faceva tutto: allenava squadra e portieri coi suoi sinistri a giro, seguiva la preparazione atletica e soprattutto giocava le partitelle come tante finali, dispensando consigli e calcioni.
Quella squadra volava; ognuno giocava come sapeva fare e non solo come voleva, 12-13 titolari con Mazzia in tutti ruoli del centrocampo. La stima e il rispetto per il mister assoluti anche se si faceva tardi a giocare a carte; gli equilibri tattici e umani solidi. “Parli di rispetto – racconta Piero Baisi – ed è proprio così, anche se il confronto con noi più anziani era costante. Ballacci aveva personalità e sapeva gestire il gruppo, pur mantenendo distanza e gerarchie: questo il suo segreto”.
I numeri alla fine della stagione risultarono strepitosi. Ma il bel gioco durò davvero poco e Ballaci rompeva con la società, poche ore prima della promozione matematica a Mantova. I contrasti, mai sopiti, maturati nel corso di tutta la stagione con la dirigenza, a suon di polemiche che fecero la fortuna delle cronache locali, scaturirono in divergenze insanabili sul futuro da costruire in serie B. Nella proprietà si consolidò dunque la percezione che il peso del mister fosse sproporzionato rispetto al suo stesso ruolo. Di qui, quella separazione traumatica che resta una delle pagine più infelici e contraddittorie della storia dei Grigi.
Ballacci uscì da trionfatore contro la società che, in quel caso, agì come non poteva non agire ma da quelle giornate e dall’assedio di casa Sacco a Spinetta sarebbe maturata negli stessi Sacco l’idea di un progressivo distacco, le cui conseguenze si sarebbero pagate per anni, di fronte a dirigenze rivelatesi incompetenti e poco affidabili. Stessi ingredienti e stesso approccio con città e ambiente per la seconda promozione, nel 1980-‘81, questa volta dalla C2: una squadra di gente a cui dare nuove motivazioni, anziani ancora carichi di voglia di fare, qualche giovane su cui scommettere e lui in panchina, uguale a sempre, questa volta più coach che allenatore, in un ruolo che dirigenti appassionati ma inesperti gli affidarono da subito.
E, dopo un testa a testa appassionante con la Carrarese di un giovane Orrico, arrivava un’altra promozione altrettanto epica anche per come maturò, in extremis, con il rigore di Pasquali al Pavia, all’ultimo minuto di campionato. Anche qui una rosa ristretta, difesa impenetrabile, un gruppo inossidabile: il marchio Ballacci. Ma anche qui non ci fu lieto fine e la separazione si rivelò traumatica, l’anno successivo in C1 con un squadra non all’altezza e l’epilogo della retrocessione nell’ultima giornata col mister che usciva scortato dalla polizia. Ci sarebbe stata una terza volta ad Alessandria, in C2 nella primavera dell’88, terzo allenatore in una stagione caratterizzata da un ripescaggio che aveva portato i Grigi in un girone in cui giocavano Sassuolo e Chievo.
Ballacci arrivava da un’esperienza borderline di quelle che a lui piacevano tanto, a Isernia. “Squadra e società in fallimento: lui faceva anche il cuoco alla fine dell’allenamento, per consentire ai suoi di mangiare almeno qualcosa” ricorda un informatissimo Renzo Melani. Non ci fu, quella primavera dell’88, quello che tutti sognavano, anche solo inconsciamente e cioè la terza promozione della sua esperienza alessandrina. Quella squadra, tanta bella da vedere quanto poco pragmatica, con i Bisoli, i Tortora, i Mastini e i Marescalco, non aveva quello spirito guerriero che era lo schema di gioco preferito da Ballacci. E fu quinto posto. E qui finisce la storia. Resta l’entusiasmo della gente alle feste, nei compleanni Grigi, in occasione delle sue partecipazioni e quell’andatura caracollante, mai perduta col passare degli anni, così bella da vedere all’ingresso in mezzo a platee adoranti di tifosi. Abbiamo bisogno di gente così, forse. Uno tipo John Wayne… o Dino Ballacci.
Gigi Poggio