Il 23 giugno 1973 i Grigi vinsero la prima edizione della Coppa Italia di Serie C. Insieme al trofeo si riconoscono, da sinistra: Pozzani, Di Brino, Musa, Dolso, Maldera II, Manueli e Colombo.
E’ morto all’età di 68 anni Arrigo Dolso, uno dei più grandi talenti di sempre visti in maglia grigia. Fu adorato dai tifosi della Lazio, che per lui hanno coniato l’appellativo di “Sinistro di Dio”. Per me era un vero amico e fu ben felice nel giugno del 2011 quando lo invitai ad Alessandria per una grande rimpatriata di stelle grigie.
In questo momento, la prima cosa che mi viene facile è quella di riproporre un articolo che che a lui piacque molto. Me lo aveva consegnato ad Alessandria e conteneva le confessioni che aveva fatto al giornalista Stefano Boldrini.
Arrigo Dolso, genio e sregolatezza, racconta le sue imprese dentro e fuori il rettangolo verde. Quel tunnel all’olandese Krol ed il gol da trenta metri al torinista Castellini
Tra i giocatori talentuosi, ma nello stesso tempo “cavalli matti”, che abbiano mai difeso i colori dell’Alessandria, figura Arrigo Dolso. Nato a San Daniele del Friuli il 12 novembre 1946, giocatore mancino, divenne campione italiano Primavera nelle fila dell’Udinese, dove iniziò nel 1964 la sua lunghissima carriera nel professionismo. Nella stagione 1966-‘67 venne acquistato dalla Lazio con cui fece il suo esordio in Serie A, il 18 settembre 1966 nella partita Fiorentina-Lazio (terminata con il risultato di 5-1). Giocò sei anni nella Capitale, intervallati da una stagione al Monza. Il suo bilancio con la Lazio è di 80 partite complessive (68 in campionato, 9 in Coppa Italia, 2 in Coppa delle Alpi e 1 in Coppa UEFA) e 6 gol (tutti in campionato). Con la maglia biancoceleste ha conquistato la Coppa delle Alpi nel 1971. Nel novembre del 1971 si trasferì al Varese. Seguirono stagioni ad Alessandria, Benevento, Trapani, Grosseto e Ravenna. È stato nella Nazionale militare e in quella Under-21.
La rimpatriata del 2011. Nella foto si riconoscono Santino Ciceri, Ciccio Marescalco, Nando Gorrino, Gigi Manueli, Sergio Notarnicola, Anselmo Giorcelli, Mario Bocchio, Arrigo Dolso e Toni Colombo.
Genio e sregolatezza: un vero e proprio artista. Oggi eccolo dritto come un albero, sul molo di Portoferraio, magro come allora, i capelli abbondanti come allora, il sorriso da ingenua canaglia come allora … “Sono venuto quaggiù nel 1984, quando smisi di giocare. Avevo bisogno di un’ isola, di un rifugio. Il mare c’entra poco, a malapena mi tengo a galla”. “Da bambino trascorrevo i pomeriggi nel cortile di casa ad inseguire il pallone. Giocavo scalzo o con le pezze che avvolgevano i piedi. Nel ‘60, entrai nelle giovanili dell’ Udinese. Nel ‘66, mi acquistò la Lazio, pagando una bella somma, 95 milioni. A Roma rimasi fino al ‘71. Mi ritirai nell’84. Avevo 38 anni, ma continuai a giocare con gli amici. Anche ora, tre volte a settimana mi diverto con il calcetto”. Divertirsi: è stato il filo conduttore dell’ esistenza di Dolso. Aveva un piede sinistro che incantava. Aveva talento. Ma doveva divertirsi.
Il 10 giugno 2011, in occasione del convegno sulla storia dell’Orso Grigio svoltosi in Municipio ad Alessandria, Arrigo Dolso ha incontrato Carlo Sacco, figlio e fratello di Remo e Paolo.
“Ero innamorato della vita – racconta – e per me la vita è sempre stata pallone, musica e donne. Non passavo mai il pallone, era più forte di me, ma i compagni si arrabbiavano. Feci il militare con Zoff e Riva. Nelle partite in caserma, Riva non voleva mai stare in squadra con me: ‘Sei un fenomeno, ma non passi il pallone’. La sera non riuscivo a restare a casa. Andavo al Piper. Sono cresciuto insieme con Patty Pravo e Rocky Roberts. E se non era il Piper, andavo in via Veneto. E se non era via Veneto, andavo ai concerti. Mi piacevano i Beatles, i Bee Gees, Mina e Adriano Celentano”.
“Indossavo camicie a fiori d’estate e camicie a coste di velluto d’inverno – continua Dolso – Quando arrivavo agli allenamenti, l’allenatore, l’argentino Lorenzo, un uomo molto superstizioso, mi diceva ‘stanotte in che complesso hai suonato?’. La musica era una mania. Come le donne. In sede mi arrivavano centinaia di lettere e io rispondevo a tutte le ragazze, fissando un appuntamento. Non sopportavo i ritiri estivi. Due settimane a correre per i boschi, forse per questo odio correre. Non ci facevano mai toccare il pallone. Io protestavo ‘quand’ è che ci date l’oggetto misterioso?’, lo chiamavo così. E poi quella clausura, quelle costrizioni. Una volta arrivai in ritiro con qualche giorno di ritardo. A cena i compagni di squadra mi dissero, ‘stasera, Arrigo, si va al cinema’. Mi portarono all’ ultimo piano dell’ albergo, salimmo sul tetto e ci mettemmo a sbirciare le finestre del palazzo di fronte. C’erano delle ragazze. Mezz’ora dopo sentimmo un bisbiglio. Era il portiere dell’ albergo che ci chiamava. Gli inquilini del palazzo di fronte avevano chiamato i carabinieri. Ci portarono nella hall e l’allenatore mi disse ‘sei appena arrivato e già combini casini’ “.
L’ultima promozione in B dell’Alessandria, campionato 1973-’74.
“Il mio modello era Mariolino Corso – conferma Dolso – portavo i calzettoni abbassati come lui. Ma il giocatore più forte che ho conosciuto è Rivera. Ad Alessandria si parlava solo di lui. Già, Alessandria, dove scoprii la pittura. Mi comprai la tavolozza, i colori e cominciai a dipingere. Se dovevo finire uno schizzo, tardavo persino agli allenamenti. Ma ormai mi ero calmato, mi ero sposato con Marisa, conosciuta a Monza, ed era nata Talitha, un nome aramaico”.
Dolso sulle figurine Panini con la casacca del Varese.
“Avevo un debole per il tunnel. Lo feci anche a Krol, l’olandese, per vincere una scommessa. Avevo 35 anni e giocavo a Grosseto. Per me il calcio era arte. Come quel gol che rifilai al Torino, nel 1970: dribblai due avversari e tirai da trenta metri. Castellini neppure vide il pallone. Potevo fare grandi cose, ma si vive solo una volta e ho cercato di vivere a modo mio. Non ho problemi, possiedo un bar e ho la pensione. Vorrei insegnare calcio ai bambini, ma c’è la crisi e tagliano i vivai. Peccato, la vita continua”.
E Arrigo Dolso continua a sorridere alla vita, e continua ad incantarsi. Come il giorno in cui sbarcò a Roma, nell’estate 1966. La sera si era già perso. Fece l’alba scoprendo Roma, Roma della dolce vita, come dolce è stata la vita di Dolso Arrigo di San Daniele del Friuli, figlio di un operaio e degli stenti del dopoguerra. Forse per questo ha voluto godersi la vita senza rimpianti. Se la gode ancora: negli occhi della sua Marisa, bellissima, nei sorrisi degli amici, nei suoi tunnel di calciatore in pensione.
Mario Bocchio