È esistito un tempo in cui il mondo di un ragazzetto di 10 anni orbitava lungo un ellissi perfetta nei quali fuochi si stagliavano immobili due centri di formazione fondamentali per l’adolescenza: la scuola e l’oratorio. Queste due palestre di vita, spesso fonte di conflitto interiore per chi le viveva, rappresentavano tutto il mondo conoscibile da un ragazzo di provincia. La scuola rappresentava la legge degli uomini, con le sue regole ferree e la didattica impostata, mentre l’oratorio era la legge di Dio, che con il suo amorevole sguardo paterno vegliava sulla vita dei suoi figli più piccoli.
All’oratorio i giovani, tra un Padre Nostro e un Ave Maria, imparavano ad apprezzare lo sport come fonte di divertimento e ne apprezzavano la sua utilità sociale. All’oratorio si iniziavano a dare i primi calci al pallone, nei polverosi e assolati campi di periferia. Già perché il pallone italiano nacque anche con il supporto della periferia, Casale e Pro Vercelli su tutte, e lì, in periferia, nacque la storia di una squadra che è un po’ diversa da tutte le altre. Primo su tutti il nome che non contiene la città di appartenenza e soprattutto viene sempre citato come acronimo di Società Polisportiva Ars et Labor, o più precisamente SPAL. La SPAL è la squadra di Ferrara, la più profonda provincia dell’Emilia e la più di confine, con la fierezza storica e la sua bellezza senza tempo. I suoi tifosi sono chiamati “spallini”, un nome quantomeno buffo se associato alle figure poco raccomandabili che sono talvolta gli ultras di una squadra di calcio.