Il 16 maggio saranno esattamente otto lustri dalla vittoria dell’ultimo scudetto del Torino. Gigi Radice volle anche i calzoncini e i calzettoni color sangue. Il tricolore giunse dopo ventisette anni dalla tragedia di Superga.
“L’eternità è passata in un lampo”. Parole di Roberto Salvadori detto “Faina”. In quell’ormai lontano successo, si può sostenere a ragione che anche il grigio contribuì a fare splendere il granata.
Salvadori, dopo aver giocato nelle giovanili con il Magenta, squadra della sua città natale, esordì nel calcio professionistico nella stagione 1969-‘70 nel Verbania. Dopo tre anni in riva al Lago Maggiore si trasferì all’Alessandria, sempre in serie C, con la quale conquistò la Coppa Italia Semiprofessionisti.
In quel campionato il primo tentativo di salire in serie B andò a vuoto, anche se di un soffio, perché fu il Parma ad aggiudicarsi il torneo , anche se in uno stadio “Moccagatta” pieno zeppo di spettatori, ben ventimila, l’Orso vinse 1-0 proprio contro gli emiliani, con “graffio” della “Faina”.
Salvadori (accosciato, secondo da sinistra) all’Alessandria nel 1972-’73.
Nell’estate 1973 venne acquistato per la cifra di 290 milioni – considerevole per un giocatore proveniente dalla serie C – dal Torino. Nella prima stagione, pur partendo come rincalzo, scese in campo 17 volte (una rete all’attivo, gol del pareggio in trasferta a Bologna), schierato da Gustavo Giagnoni a centrocampo, posizione che occupò anche nella stagione successiva, quando disputò 24 incontri agli ordini di Edmondo Fabbri. All’ inizio della stagione 1975-‘76, il nuovo allenatore dei granata Gigi Radice lo schierò sulla fascia sinistra come terzino disputando 30 presenze su 30 partite e conquistando il titolo italiano.
Nella stagione successiva ottenne un secondo posto, sempre con i granata che, pur conquistando 50 punti sui 60 disponibili, giunsero secondi dietro ai rivali cittadini della Juventus. In quell’ annata, al contrario della precedente, Salvadori trovò per due volte la via della rete. Dopo altre due stagioni, nel 1979-‘80 perse progressivamente il posto da titolare a vantaggio di Salvatore Vullo, disputando 11 incontri, per lo più nel ruolo di libero o di terzino destro. Restò in granata fino al 1983, senza più riuscire a rientrare in pianta stabile in formazione (solo 48 presenze in quattro annate).
Nell’estate 1983 tornò all’Alessandria in serie C, chiudendo coi Grigi l’attività agonistica, tutta trascorsa in squadre piemontesi, dopo aver disputato 198 presenze con 3 reti in massima serie, tutte col Torino. In Nazionale era chiuso prima da Francesco Rocca, quindi da Aldo Maldera e Antonio Cabrini. Ottenne tuttavia due presenze con la Nazionale B, entrambe nel 1977.
Una formazione dei Grigi nella stagione 1983-’84. Salvadori è il primo in piedi, da sinistra.
Gigi Radice: creò il Torino all’olandese con Graziani-Pulici. E anche Salvadori
Il Toro di Radice vinse lo scudetto con 2 punti di vantaggio sulla Juventus, un’impresa che dopo Superga non era riuscita né a Rocco né a Giagnoni, e nemmeno a Fabbri. Era la squadra dei “Gemelli del gol” e del “Poeta”, moderna che si ispirava con metodo e chiarezza alla scuola olandese. Il modello era l’Ajax, il calcio totale.
Il Toro 1975-’76 sulle figurine dell’edizione Edis.
“Nuova luce e visione in Europa”, disse più volte lo stesso Radice, l’uomo che costruì quel Toro. “I primi a fare pressing. Molto movimento senza palla, il dai e vai in velocità”. Quel calcio affascinava Radice, aveva anima e fierezza. E la mentalità vincente: andava in campo per imporre il suo gioco, contro tutti. Anche contro la potente Juventus. Alla 21ª giornata i bianconeri (campioni d’Italia in carica) avevano un vantaggio di 5 punti. Poi nelle successive tre il Toro passò (dopo aver vinto anche il derby) a più uno. Riuscì nella grande impresa spinto anche dalla forza e dall’immensa eccitazione della città. Scrissero: “Hanno fatto resuscitare il Grande Torino”.
Gigi Radice fece giocare in porta Castellini detto “Giaguaro”. Soffriva di ulcera, era molto nervoso, ma parava e parava e subiva meno di tutti. La difesa: Caporale, il libero. Arrivava dal Bologna dopo aver giocato molto poco. Radice lo reinventò: una grande sorpresa. Mozzini stopper robusto e sereno. Di lui dicevano: sembra un impiegato di banca, tranquillo e preciso. A destra Nello Santin, a sinistra Salvadori, i terzini. Santin era un marcatore per vocazione, è stato anche nel Milan e fatto bene con la Sampdoria. Esplose in granata. Salvadori veniva dall’Alessandria, crebbe e maturò con il Toro. Giocatore completo, buona falcata, controllo intelligente dell’avversario.
Tre uomini a centrocampo. Il loro calcio era modernissimo. Pecci al centro, Zaccarelli a sinistra e Patrizio Sala a destra. Zac possedeva dribbling rapido, volava e batteva con prepotenza. Patrizio era un altruista, dava un mano a tutti con naturalezza e semplicità. Poi Eraldo Pecci, regista che correva e impostava con piedi e cervello: indispensabile. Come Claudio Sala detto il “Poeta”: il Toro si affidava alla sua fantasia. Il “Poeta” fece tutto con disarmante semplicità, quella del fuoriclasse.
Stadio “Filadelfia”: Graziani, Pat Sala e Zaccarelli.
E poi i Gemelli. Naturalmente del gol: Graziani e Pulici. Ciccio Graziani al centro, gran destro, gran sinistro, ottimo colpo di testa. Ma, soprattutto, tornava a dare una mano.
Radice non ha mai avuto dubbi: “Il più moderno dei centravanti italiani”. E Paolino Pulici: eccezionale forza fisica, colpi improvvisi. “Un vero ciclone, partiva da sinistra attirato dal gol e in gol andava”. L’anno dopo l’impresa, il Toro fece 50 punti, la Juve 51.
Mario Bocchio
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