Se è vero che il calcio può regalare gloria eterna ai suoi protagonisti, è altrettanto vero che a volte può capitare che una mancata promozione in Serie B – seppur avvenuta in maniera clamorosa – si tramuti in un’eterna condanna all’oblio, trasformando un giocatore-uomo vero in un capro espiatorio, l’unico responsabile per chi, tra tifosi e addetti ai lavori, dimentica che quello che è lo sport più amato al mondo alla fine non è altro che un gioco, dove si può vincere o perdere e dove soprattutto, trattandosi di un gioco di squadra, un uomo solo (o pochi uomini) non può (possono) essere responsabile (i) di vittorie e disfatte.
Quello che accade a Cristian “Chino” Sosa è un caso che andrebbe studiato e mai dimenticato, una storia che chiede giustizia e che probabilmente mai l’avrà vista la malafede di cui è vittima il genere umano. Figlio della garra charrua – la grinta oltre ogni limite in versione uruguaiana – Sosa non può che essere un arcigno difensore, una sicurezza in un ruolo tanto delicato, classe e disciplina: per la mancata promozione è stato condannato dal suo stesso popolo per sempre, additato come responsabile di una tragedia sportiva che ha colpito l’Alessandria. Un popolo furioso ad esigere un capro espiatorio con cui prendersela.
Il “Chino” ha appena contribuito al miracolo di aver condotto alla salvezza l’Alma Juventus Fano nel girone B della Serie C, ma quello che è successo ad Alessandria sembra non fargli amare il calcio come una volta, lui che al calcio ha sempre dato tutto, da quando vinse il campionato in Uruguay con il Defernsor Sporting mettendosi in mostra come uno degli elementi più promettenti per varcare l’Oceano.
Ormai ad un anno di distanza crediamo possa esserci una minima serenità mentale per approfondire alcuni aspetti e cercare di capire.
“C’è tanta ingiusta cattiveria nei miei confronti. I tifosi grigi mi odiano e amano invece quei giocatori che avevano più presenze ai compleanni degli stessi tifosi che in campo”. Il “Chino” non ha remore. Come quando fa notare: “Leggo tanti commenti, ma è troppo comodo farli a distanza schiacciando i tasti del computer. Quelli che mi insultano vorrei tanto che avessero il coraggio di dirmi tutto davanti alla mia faccia”.
Ha il piglio da guerriero, che non ha mai avuto paura di nessuno in campo e nella vita, che ha saputo sempre assumersi le proprie responsabilità, nella vittoria come nella sconfitta. Ancora di più se con al braccio la fascia di capitano.
“Ho contribuito a fare crescere l’Alessandria, a farla conoscere nel grande calcio di oggi con l’impresa nella TimCup. Da capitano ho sempre cercato di proteggere tutti i miei compagni, anche quelli che magari non se lo meritavano, mettendomi sempre davanti a loro quando ci insultavano pesantemente, come quella notte ritornando da Tivoli quando sono venuti ad aspettarci all’hotel. Ci minacciavano, addirittura abbiamo rischiato un incidente con il pullmann perché con le macchine cercavano di fermarci in autostrada. Tutto ciò ha avuto un senso?”.
Ed ancora: “Io sono sempre stato un uomo sincero. Vietare ai compagni di andare sotto la curva? Non è vero. Ho solo detto di no a Ciancio a Lecce, perchè lui in quel momento non era più un giocatore dell’Alessandria e voleva ruffianarseli sperando di poter magari ritornare. Adri può anche aver sbagliato, ma Mezavilla quel pomeriggio a Tivoli ha solo difeso il presidente Di Masi che veniva insultato dai tifosi”.
Chissà quante volte Sosa ha tentato anche lui di capire. Per poi poter spiegare che sinora si sono solo dette tante cattiverie.
“Ci hanno accusato di aver venduto le partite. Un’infamata, che indaghino pure. Perché non lo hanno fatto? Io dormo sonni tranquilli da questo lato. Mi spiace soprattutto per Vannucchi, lui è giovane. Vi ricordate l’ultima partita in casa con il Pontedera? Sentirci insultare anche quando in quel momento vincendo noi e pareggiando la Cremonese, eravamo in B, non lo concepisco e non lo potrò mai accettare e perdonare. Ma se per caso fossimo realmente stati promossi, con che coraggio ci avrebbero festeggiato? Se solo la Racing Roma fosse riuscita a pareggiare l’intera storia del calcio alessandrino sarebbe cambiata. Di certo sarebbe cambiata la mia, che da quel giorno vengo considerato come l’uomo che ha fatto perdere la B. Una maledizione da cui mi voglio liberare soltanto con l’enunciazione della verità, che piaccia o non piaccia deve essere accettata. La verità di una squadra in cui non tutti hanno avuto un carattere forte da reggere concentrazione e pressioni”.
Lui, il “Chino” di Montevideo, con quella faccia da duro, la paura non sa cosa sia.
Playoff, gara di ritorno, Alessandria-Lecce si dovrà decidere ai calci di rigore. La posta in palio è altissima e la tensione alle stelle. A differenza di qualcuno che tra i Grigi si rifiuta di calciare, Sosa non si sottrae al suo dovere, nonostante sia consapevole di essere già nel mirino della contestazione. Nel finale di partita e per tutti i tempi supplementari, per non lasciare i compagni con un uomo in meno, Mezavilla, vittima dei crampi, continua a darsi dei pugni sui muscoli. Stringe i denti. Un male da morire.
“Quel pallone bruciava, ho guardato fisso negli occhi il portiere avversario e in quel momento la garra charrua mi ha dato la scossa. Ho esultato davanti ai giocatori del Lecce radunati a centrocampo perchè mi avevano insultato mentre andavo a tirare. Fatto gol, mi è venuto spontaneo andare a dir loro in faccia ‘Se adesso avete i coglioni vedete di fare altrettanto’. Infatti hanno poi sbagliato”.
Nessuna pietà. Non è bastato quel rigore per riabilitare il “Chino” per “colpe” che facciamo veramente fatica a riscontrare.
“Il direttore sportivo Sensibile dopo la finalissima contro il Parma mi ha salutato e stretto la mano. Dopo un mese mi ha messo sul mercato dicendomi che era una scelta tecnica. Attenzione, Stellini era appena arrivato da una settimana e praticamente non conosceva ancora nessuno di noi. La mia famiglia mi ha sempre insegnato che dare la mano è un impegno da uomini. Chi viene meno, come possiamo definirlo?”.
Quello di cui è vittima “Chino”, anni prima lo ha bene raccontato il grande Eduardo Galeano nel suo “Splendori e miserie del gioco del calcio”. Già, perché in fondo da sempre nel calcio non c’è riconoscenza.
A nessuno importerà mai di capire che quell’Alessandria cadde per colpa della scarsa personalità di alcuni suoi interpreti, per gli errori tattici dell’allenatore Braglia che non intuì le mosse degli avversari e i limiti dei suoi, per l’enorme pressione che un popolo intero aveva messo addosso alla squadra.
A nessuno, in fondo, è mai importato: la folla voleva un capro espiatorio, qualcuno con cui prendersela, e quello è stato individuato in uno come il “Chino” e per questo condannato all’insulto perenne. Una porcheria!
Mario Bocchio
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https://www.youtube.com/watch?v=U4x8dj800eY
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