Non so quali siano i colori di Genova, Milano, Torino. Forse il blu del mare, il bianco delle montagne, il rosso del dinamismo. Chissà… Ma so, con certezza almeno novecentesca, quale sia quello di Alessandria: il grigio. Un colore definitivo al punto da essere diventato identità di una città che, se non avesse vissuto la parabola calcistica come un’epopea, probabilmente sarebbe stata caratterizzata dal marrone del fango dei suoi fiumi.
Alessandria-Genoa 2-2 ottobre 1931.
Invece, proprio nei primi anni del secolo appena trascorso succede una trasformazione epocale nella coscienza collettiva di una città. Il vecchio naturale colore prima si perde tra i successi della straordinaria squadra da corsa di Giovanni Maino, superbo interprete di una tecnologia che produce “macchine” terribili per gli avversari e campioni del mondo a raffica, locomotive umane, sudore spalmato sul telaio di ferro di una bicicletta che sa solo vincere, poi passa – per il miracolo del dono – sulle spalle di undici baldi giovanotti che calcano il fangoso campo degli Orti e rimescolano, fino a schiacciarlo, il colore dei propri avi. Ora il grigio trionfa tra i calci appassionati di campioni ineguagliabili, tra assi della carrarola, tra calciatori che vincono la Rimet due volte nel giro di quattro anni.
Alessandria-Triestina 5-0 campionato 1946-’47.
E dopo tali affermazioni, il grigio può affermarsi come colore di un’identità? Beh, la risposta la conoscete. E dire che molte volte – sbagliando – si è pensato al grigio come alla tinta della sconfitta di una comunità, quando invece era l’esaltazione incontenibile della vittoria.
1916, al mitico campo degli Orti, il “Pollaio”.
Bene, in questo miscuglio mefistofelico tra grigio, città, identità, carattere di una comunità si è tuffato Marcello Marcellini con il libro “Giorni di grigio intenso” unendo a ciò un altro mix incontenibile: la memoria, il ricordo, la conoscenza, la storia, la passione, il trasporto, l’immagine.
Notti e Gastaldi entrano in campo al “Moccagatta”.
Proprio su quest’ultimo aspetto occorre soffermarsi se si vuole comprendere il lavoro di Marcello Marcellini, perché la partenza sta proprio lì, in quel bianco e nero un po’ seppiato, dal contrasto smunto, pescato a piene mani nei dagherrotipi della fototeca comunale, trasformati immediatamente in narcisismo mnemonico. Quasi un tranello in cui l’autore si getta – consapevole – trascinando con sé il lettore: partire da una foto per rimirarla e poi, invece, collegarla ad una storia, di calciatori, di allenatori, di presidenti, di match. Far sì che il racconto delle parole finisca per prevalere su quello per immagini. Negando lo stesso spunto da cui era partito. Precipitando nella botola – a lungo – in una caduta vorticosa e infinita, non atterrando mai su una certezza, ma brancolando nel vuoto, tentando di aggrapparsi ai ricordi, perché le fotografie fissano momenti ma non riescono a disegnare le parabole sregolate del football, gesti vigorosi, colpi di reni plastici, entrate di quelle che se anche prendi la palla non fa niente. E allora bisogna sopperire al fatto che una biottica o una reflex o una sei per sei non ritraggono tutto, ma abbisognano del racconto pescato nella memoria d’autore. Così se si vuole raccontare Lojacono non si può prescindere dal guardare stupiti un pallone che si libra nell’aria e atterra dopo un secondo che sembra un’eternità, nell’incrocio dei pali, come se fosse la sua naturale dimora. O se si pretende di trovare l’impatto tra il plastico Lino Nobili e il pallone, non ci si può sottrarre dall’accedere al repertorio dei nostri occhi che hanno un hard disk a parte nella nostra mente e che ci restituiscono informazioni ancora vivide a distanza di anni.
Dalla copertina di un quaderno di scuola.
Marcellini qui ha materiale, ma sceglie un fotogramma, quello di un solo campionato, come se leggere un libro fosse sfogliare un quotidiano sportivo. Ancora una volta alla ricerca di un contrasto più che di un pacato cammino di storie sportive. Ancora una volta giocando la cronaca come avversario della storia. Ancora una volta scegliendo due colori divergenti per ottenerne una miscela meravigliosa: il grigio.
Piercarlo Fabbio
La foto sotto il titolo è tratta da un quaderno di scuola dell’epoca che riportava la partita Alessandria-Napoli agli Orti.