Il pensiero è quasi immediato. Ascoli e Rozzi, Costantino Rozzi. 26 stagioni a guidare i Bianconeri, a essere simbolo di una città che è emersa con coraggio e ambizione. Dalla Serie C, fino alla Serie A. E da protagonista, negli anni ruggenti del calcio italiano a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. In totale: una promozione in serie B, quattro in serie A, una Mitropa Cup, il Torneo di Capodanno, una competizione internazionale in Canada, quarto e sesto posto nel massimo campionato.
L’Europa a un passo, ma mai raggiunta. La svolta avvenne quando questo geometra specializzato nel costruire gli stadi, prese come allenatore Carletto Mazzone: in soli quattro anni l’Ascoli riuscì nel doppio salto trovando, per la prima volta nella sua storia, la serie B (1971-‘72) e la serie A (1973-‘74). “Bisogna riconoscere le proprie capacità e i propri limiti per riuscire nella vita”: era una frase che Rozzi amava citare e in cui si riconosceva perfettamente. Gli anni Ottanta catapultarono definitivamente l’Ascoli nel gotha del calcio italiano. anche grazie al fiuto per certi affari, rivelatisi geniali.
Come quando Rozzi riuscì a ingaggiare dalla Juventus Pietro Anastasi e Liam Brady, considerati nella fase discendente della loro carriera. O quando portò in bianconero attaccanti del calibro di Bruno Giordano, Walter Casagrande e Oliver Bierhoff. Costantino Rozzi amava Ascoli. E Ascoli contraccambiava, conscia di non poter desiderare un presidente più appassionato e competente. Pane al pane, vino al vino. Lui era un personaggio istrionico e ruspante, che non le mandava a dire. In un’epoca in cui il calcio veniva vissuto sicuramente in maniera più leggera rispetto a oggi, Rozzi personificava l’ideale del patron di provincia.
Le frasi a effetto si mescolavano ad alcuni riti scaramantici, su tutti i famosi calzini rossi che non mancava mai di indossare quando andava allo stadio, per cavalcare una semplice sedia sotto la curva del tifo bianconero.
Mario Bocchio